Giotto Bizzarrini, il genio dell’aerodinamica

Laura Ferriccioli

Intervista a Giuseppe Bizzarrini, ingegnere meccanico e primogenito del grande Giotto che ha cambiato la storia della velocità automobilistica

 

 

Collaudatore, progettista, costruttore. Giotto Bizzarrini è stato una delle menti più creative, geniali e innovatrici dell’automobilismo mondiale. Spirito libero guidato dalla passione per la sperimentazione, dagli anni Cinquanta ha dato un contributo fondamentale allo sviluppo dell’automobile grazie anche alle intuizioni formidabili che il suo enorme talento ha saputo fornirgli. Ogni volta ha messo a segno nuovi, folgoranti standard di performance e ogni volta ha regalato al mondo capolavori assoluti. Capolavori che oggi sono contesi dai collezionisti a colpi di decine di milioni di euro. Nato il 6 giugno del 1926 a Livorno, si è laureato all’Università di Pisa ed è entrato un anno dopo in Alfa Romeo, nel 1954. Il resto della sua intensa storia professionale lo ripercorriamo, nei principali tratti salienti, insieme al primogenito Giuseppe, 68 anni, maggiore di quattro figli e ingegnere meccanico come da tradizione di famiglia. “Mio nonno era ingegnere civile, però: esperto di idraulica e opere marittime”, precisa. Dopo quattro anni in Auto Delta ha collaborato con Abarth, Fiat, Zagato e Alfa Romeo per la ES30 (SZ). Si è specializzato nell’ambito dei materiali compositi e nel 1981 ha disegnato il primo telaio completamente in fibra di carbonio del Biscione e della Formula 1. E, naturalmente, ha svolto alcune collaborazioni con il padre. Mentre sua madre, la signora Rosanna, mancata nel 2020, ha lavorato insieme a Giotto negli anni Settanta realizzando le carrozzerie di tanti progetti concretizzati dopo la chiusura della Bizzarrini Livorno. Ma cominciamo dall’inizio.

 

 

Giotto Bizzarrini con la Topolino che aveva reso aerodinamica quand’era ancora studente all’Università di Pisa. Così trasformato, il veicolo sfiorava i 150 km all’ora

 

L’ingegnere in un ritratto del 1966

 

 

La Topolino che suo padre modificò appena laureato rendendola aerodinamica esiste ancora?

“Sì, è in una collezione che se non ricordo male si trova a Brescia. Fu costruita nell’officina del signor Pasqualetti di Pisa, che era dietro alla facoltà di ingegneria”.

 

Un luogo sacro per dei futuri ingegneri meccanici.

“Beh, mio padre penso passasse più tempo lì che a studiare. Si era appassionato di aerodinamica e preferiva sperimentare anziché stare alla scrivania. Esistono delle foto della Topolino con la mia bisnonna e con me al volante. Avrò avuto tre anni, più o meno”.

 

Dei due figli maschi lei è quello che ha lavorato di più insieme a Giotto?

“In realtà mio fratello Pietro, del 1956, ci ha lavorato più di me. Per un periodo abbiamo collaborato anche tutti insieme: negli anni Settanta, per la AMX3 dell’American Motors”.

 

Com’era lavorare con suo padre?

“Non c’è una domanda di riserva?” (Ride).

 

Lei è andato a Milano appena terminati gli studi?

“Sì, ho ancora lavorato con mio padre in officina durante il primo anno di ingegneria, poi però così non riuscivo a studiare. Mi sono trasferito da mio nonno e dopo la laurea sono andato a lavorare all’Auto Delta con l’ingegner Chiti”.

 

Un toscano anche lui.

“Con mio padre erano amici. Quando vivevamo a Milano (dal 1954 al 1957, gli anni in cui Giotto Bizzarrini era in Alfa Romeo, nda), abitavamo in piazzale Lotto nella stessa palazzina. È probabile che si fossero conosciuti in Alfa, ad ogni modo hanno lavorato insieme anche in Ferrari, dove mio padre fece domanda e credo che propose l’ingegner Chiti, arrivato poco dopo. Mio padre all’alfa Romeo era nel Reparto Esperienze, diretto dall’ingegner Rudolf Hruska e credo che proprio lui lo propose a Ferrari perché da un lato mio padre aveva risolto dei problemi di rotture sul telaio della Giulietta e dall’altro l’ingegner Hruska si era reso conto che non era proprio adattissimo a lavorare in team, come si dice ora (ride). Gli disse quindi di fare domanda e mio padre venne assunto come collaudatore delle vetture di produzione al posto dell’ingegner Sighinolfi, che era mancato poco prima”.

 

Una Ferrari 250 SWB alla cronoscalata inglese Chateau Impney Hill Climb nel 2016

 

 

Suo padre ha lavorato alle Ferrari più ammirate di tutti i tempi… la Testa Rossa, la 250 GT Ellena, la 250 Spider California, la 250 SWB, la 250 GTO… una sequenza impressionante.

“Tali vetture erano progetti Ferrari nei quali lui faceva la sua parte di collaudo e messa a punto, mentre per la 250 GTO ha creato il progetto completo. Quando il Commendatore disse a mio padre di sviluppare una vettura del tutto nuova perché temeva l’uscita della Jaguar E-Type, nel 1961, gli diede l’indicazione di trasformare l’auto aziendale che aveva in dotazione: la Ferrari 250 GT Boano. A quel punto mio padre mise in pratica le idee aerodinamiche che aveva maturato nei collaudi: tutte le vetture a una certa velocità “galleggiavano”, lo sterzo si alleggeriva, perdevano stabilità. Quindi aveva intuito che la forma doveva essere il contrario di quella che avevano la maggior parte delle vetture del genere, ovvero un muso piuttosto alto e tondeggiante, massiccio, con una coda molto sottile che si abbassava. Bisognava fare una specie di cuneo. Tagliò il telaio della Boano dietro il sedile, accorciò il passo in modo da avvicinare all’assale posteriore sia il posto del pilota sia il motore, spostò il motore indietro ulteriormente per aumentare il peso sull’assale posteriore e cominciò a realizzare la carrozzeria a mano, battendo la lamiera e andando a creare la forma che poi è diventata il muso, bassissimo, della 250 GTO con la presa d’aria frontale. Il radiatore però non si raffreddava abbastanza e allora aprì quelle tre bocche sopra il muso che sono delle prese d’aria Naca impiegate negli aeroplani: servivano ad alimentare il radiatore e allo stesso tempo a ridurre il flusso d’aria che passava sopra la vettura. Mio padre le conosceva perché era appassionato di aerei da caccia. Era anche convinto che le automobili non dovessero essere disegnate dagli stilisti perché l’aerodinamica avrebbe dovuto portare a concepire una vettura ottimale come un aereo… Quindi le automobili a un certo punto avrebbero dovuto essere tutte uguali, solo aerodinamiche”.

 

Centro di gravità e aerodinamica erano le sue tematiche principali, in effetti.

“Sì, in questo caso il centro di gravità spostava la massa in posizione centrale per avere una minore inerzia, poi la vettura era comunque molto bassa e la parte posteriore altissima, anche se non perfettamente tronca. La coda è particolare, ha una forma tondeggiante abbastanza indefinita: non ho mai capito perché l’abbia fatta così e purtroppo non glielo posso più chiedere perché è impossibile che ricordi dettagli tanto lontani nel tempo”.

 

 

Il primo prototipo della Ferrari 250 GTO, soprannominato “La Papera”

 

 

Ricorda la coda della 250 SWB.

“Che i componenti siano quelli della 250 SWB è evidente, però il lunotto è montato molto più in alto e molto più inclinato, tant’è che dall’abitacolo probabilmente non si vede niente attraverso lo specchietto retrovisore. In più, i due parafanghi sporgono rispetto alla zona del lunotto e creano due specie di pinne che forse hanno una funzione stabilizzatrice. Poi, avendo spostato molto peso sul posteriore, su questa vettura mio padre montò per la prima volta i pneumatici posteriori più grandi degli anteriori, d’accordo con Pirelli. Il risultato, quando l’andò a provare, fu che l’auto, soprannominata “la Papera” per il frontale basso e sottile che, con sopra le tre prese d’aria richiamava il becco di una papera, era estremamente stabile. Per forza di cose non fu testata in galleria del vento perché iniziarono a costruirla a giugno e fu provata già ad agosto nel circuito di Modena, poi a Monza alle prove del Gran Premio. Però, durante quelle prove la vettura aveva una velocità di punta altissima in proporzione alla potenza impiegata: superava i 300 km/h. Un problema che emerse dimostrava come avesse un’accelerazione trasversale molto più alta delle vetture del periodo perché in curva si accendeva la spia dell’olio dato che l’olio nella coppa centrifugava. È possibile che per come era conformato il posteriore si creasse una bolla di vuoto che richiamava l’aria dal basso innescando una specie di effetto suolo”.

 

Un successo eclatante.

La Papera” ha abbassato di 7 secondi il record della pista, un risultato mostruoso oggi impensabile. Poi è stata abbandonata e smantellata quasi subito e, poco dopo, in Ferrari c’è stato quello strano ammutinamento degli ingegneri, la cosiddetta “Rivolta di palazzo”. Mio padre mi ha raccontato di essersi schierato con gli altri perché, diciamo la verità, non è che fosse un gran politico. Ferrari lo convocò e s’arrabbiò moltissimo per il fatto che se ne andasse e quando lui gli rispose picche urlò: “Prendi la tua “Papera” e portatela via!”. Ci rimase male, sperava che sarebbe rimasto”.

 

Però Giotto non aveva motivi contro Ferrari, anzi.

“Infatti. Ma i dettagli di questa storia non li ho mai saputi. Di quel periodo non so niente anche perché con mia madre e mio fratello, per motivi di salute, non abitavamo più a Maranello ma c’eravamo trasferiti dai miei nonni, vicino Livorno. Nel 1960 ero in lockdown: allora non era generalizzato e non si chiamava così ma di fatto sono stato un anno chiuso in casa per le conseguenze dell’influenza Asiatica. Ho iniziato la scuola, mi sono ammalato e dopo Natale ci siamo trasferiti al mare su consiglio del medico. Anche questo, cioè la volontà di riunirsi con la famiglia, può aver inciso nella decisione di mio padre di andar via da Modena. Magari aprendo un’attività a Livorno”.

 

 

La Breadvan al Goodwood Revival, in Inghilterra, nel 2018 (foto: Drew Gibson)

 

Gli ingegneri formarono allora l’ATS, mentre suo padre si dedicò in proprio a un altro capolavoro, la “Breadvan”, per il conte Volpi di Misurata.

“Costruì la vettura con un’officina di Modena, sulla base stavolta della Ferrari 250 GTO sviluppata dall’ingegner Mauro Forghieri. E non c’erano neanche dei disegni, perché era stata costruita in officina e provata soltanto. L’ingegner Forghieri mantenne sostanzialmente lo schema del muso e ridisegnò la parte posteriore, che tornò verso le forme precedenti, più bassa e tondeggiante, forse anche perché la forma della Papera era oggettivamente brutta. Il risultato fu che quando andarono a provare, l’auto aveva perduto stabilità e velocità”.

 

Lei però ha glissato quando le ho chiesto com’era lavorare con suo padre.

“Eh, lavorare con mio padre… Comandava lui, punto e basta (ride). Nel gruppo di lavoro sulla “Papera” questo approccio funzionava dato che i meccanici facevano quello che diceva lui, ma altrove non era sempre così semplice”.

 

E Giotto come viveva questa paternità?

“Lui diceva che la 250 GTO non era opera sua: lui aveva fatto “la Papera”.

 

…Ovvero quella che filava.

“Esatto”.

 

 

L’ingegnere livornese nella sua officina mentre salda un telaio. Sotto, al lavoro insieme alla moglie, la signora Rosanna

 

 

Una Bizzarrini 1900 GT Europa fotografata da Marco Annunziata

 

 

A Goodwood, in Inghilterra, all’evento annuale che rievoca le gare di quando il circuito era attivo, cioè dal 1948 al 1966, è tutto un trionfo del lavoro di Giotto Bizzarrini. Ci sono le più spettacolari vetture cui ha lavorato, come le 250 SWB, e soprattutto le 250 GTO e la Breadvan, che sono opera sua.

“Se la guardiamo bene, la Breadvan è l’evidente evoluzione della “Papera” perché il muso è ancora più schiacciato, i fori del becco sono ancora più accentuati, e più grandi, e la coda è perfettamente tronca. Perciò se si va a calcolare l’asse d’incidenza della vettura, è la massima possibile. Infatti a Le Mans era nettamente più veloce della 250 GTO”.

 

Sarebbe bello portarci lui, Giotto Bizzarrini, al Goodwood Revival. Il pubblico britannico va in visibilio per le sue auto, anche se stracciano le Aston Martin e le E-Type.

“Anche la Jaguar E-Type, che Ferrari prima che uscisse temeva, ha una forma aerodinamica che giudicata con le conoscenze di oggi è sbagliata. Un modello molto aerodinamico ma con l’effetto di un’ala portante. Sarebbe interessante testare la Breadvan in galleria del vento in scala 1:1 ed esaminarne le caratteristiche”.

 

 

Una favolosa Bizzarrini 5300 Strada, uno dei capolavori prodotti da Giotto Bizzarrini in veste di costruttore con il marchio Bizzarrini Livorno. L’esemplare era al Concorso d’Eleganza di Villa d’Este a Cernobbio nel 2019

 

Giotto nel 2013 vicino Quercianella, sua città d’origine sulla costa toscana, insieme a Guy Berryman dei Coldplay, grande fan dell’ingegnere e fortunato possessore di una Bizzarrini 5300 GT

 

 

Poi, tra le tante sfide professionali vinte da suo padre, c’è stata l’Asa 1000 GT.

“La Ferrarina è stata l’occasione per lui di trapiantare la sua attività a Livorno. Lasciata la Ferrari aveva aperto la sua officina per fornire consulenze, che si chiamava Autostar: la prima commessa fu proprio lo sviluppo della Asa 1000 GT”.

 

Certo che suo padre è sempre stato un temerario. Entrava e usciva dalle aziende senza curarsi del rischio di rimanere senza impiego.

“È vero. Non aveva il senso del pericolo”.

 

In famiglia come era vissuta questa discontinuità?

“Mah. Non la percepivamo. L’abbiamo sentita dopo, nel 1969, quando è stata chiusa la Bizzarrini. Di aziende ne ha fondate tre: l’Autostar, che venne chiusa e trasferita nella Prototipi Bizzarrini, e Bizzarrini Livorno, che è fallita. Da allora mio padre ha continuato a fare parecchi progetti, molti dei quali non si sono concretizzati. Finché, a metà degli anni Settanta, entrò all’università grazie al professor Dino Dini di Pisa, che lo chiamò, e poi gli affidarono un corso a Firenze, dove intanto si era sviluppata la facoltà di ingegneria. Ha comunque continuato sempre a progettare: ad esempio la Picchio, iniziata nel 1989. Una cosa che nessuno sa è che nei primi anni Settanta ha fatto consulenza per la Fondazione Dalle Molle, proprietari della Cynar: volevano produrre una vettura elettrica”.

 

In effetti Giotto Bizzarrini ha dato in molti casi la scintilla per progetti proseguiti da altri.

“Ha sviluppato tante idee e progetti in anticipo sui tempi. Negli anni Novanta ha pensato un’auto ibrida, prima che la Toyota uscisse con la Corolla, utilizzando un motore diesel, che è il motore a combustione interna che dà il maggior rendimento. La vettura era equipaggiata con motori elettrici reversibili, i quali nella frenata restituivano energia che veniva immagazzinata in un gruppo di super condensatori: questi immagazzinavano l’elettricità che veniva restituita al motore trasformando la vettura da due a 4 ruote motrici in uscita dalle curve”.

 

Un grande inventore. Secondo molti a lui non interessava farsi promozione, però.

“È così. L’aspetto commerciale è sempre stato il suo lato debole”.

 

La galleria del vento di Giotto esiste ancora?

“La costruì molto dopo, negli anni Novanta. Esiste ancora, è all’Università di Firenze”.

 

Lei e suo padre vi confrontavate su questioni professionali?

“No, zero. Anche perché io ero andato via”.

 

La personalità di Giotto è sempre stata carismatica. Diversi fedelissimi che hanno lavorato con lui hanno anche lasciato posti di lavoro per seguirlo nei suoi progetti.

“Sì, è vero. Mauro Prampolini ha sempre avuto una sorta di venerazione per lui. Ma gli sono rimasti sempre affezionati anche Stefano Volpi, un saldatore di nome Pacini e il meccanico Sancasciani”.

 

Era uno spirito libero. Secondo lei c’era qualcuno con cui avrebbe voluto lavorare insieme?

“No, non andava d’accordo con nessuno”.

 

Era preciso, un puntiglioso?

“Per certi aspetti sì, per altri no. Secondo me non era neanche troppo attento al dettaglio. Aveva un approccio al progetto concettuale. Poteva funzionare ancora negli anni Cinquanta ma quando poi andavi a mettere una vettura in strada per partecipare alla 24 Ore di Le Mans serviva il concetto ma serviva anche il dettaglio perché se non stringi bene una fascetta e si sfila un tubicino e perdi l’olio in fondo non ci arriverai mai”.

 

 

Giotto Bizzarrini il 23 ottobre 2012 alla cerimonia per la consegna della laurea honoris causa in Industrial Design che gli è stata conferita dall’Università di Firenze

 

 

Come ha vissuto il successo e l’interesse da parte dei giornali, che tra l’altro continua ancora adesso con articoli quasi quotidiani in ogni parte del globo?

“Secondo me non gli è interessato più di tanto”.

 

Non era per nulla vanitoso, quindi.

“No, perché era più preso da quello che aveva in mente da fare che non da ciò che aveva già fatto”.

 

Ogni tanto spunta fuori qualcuno che annuncia la rinascita del marchio Bizzarrini. Per la maggior parte sono lanci fasulli, dimostrano solo la grande ammirazione che c’è ancora nei confronti di suo padre. Adesso però, mentre un designer belga ha rifatto un esemplare della Breadvan in chiave moderna, sembra che qualcun altro stia facendo sul serio: la società Pegasus costituita da ex manager dell’Aston Martin. Avete ceduto il marchio nel 1969?

L’abbiamo ceduto successivamente, alla fine degli anni Novanta. Poi il marchio Bizzarrini è passato di mano in mano. Però di fatto nessuno finora è riuscito a costruire veramente, a parte un altro prototipo creato anni fa, rimasto tale. Ora sta prendendo l’iniziativa questa azienda del Kuwait con sede a Londra, ma per produrre automobili servono investimenti molto forti anche facendo oggetti artigianali, come dei giocattoli, esemplari unici o in tiratura limitatissima. Mentre i progetti di mio padre avevano una logica nello sviluppo dell’automobile. Di fatto lo studio dell’aerodinamica moderna nelle auto da competizione è iniziata con “la Papera” ed è finita quando Colin Chapman ha scoperto l’effetto suolo: dopo ci sono stati solo sviluppi e applicazioni”.

 

Ferruccio Lamborghini aveva chiesto un V12 a suo padre per le prime GT del marchio, però c’è stato da discutere al momento della consegna: si è fatto pagare, almeno?

“Sì, ma in un certo senso questa vicenda definisce il carattere di mio padre, che aveva accettato un contratto a cavalli. Si può? Il concetto era “più cavalli fa il motore, più ti pago”. Già qui c’era qualcosa di discutibile. Mio padre l’ha progettato e fatto costruire in quel di Modena e poi l’ha portato al banco prova allo stabilimento Lamborghini a Cento, vicino Ferrara. Il V12, che ricalcava lo schema dei motori Ferrari, era un 3 litri, e al primo test ha dato una potenza di 360 cavalli, quindi molto superiore alle attese. Ferruccio Lamborghini a quel punto ha calcolato quanto doveva pagare: come minimo c’erano 60 cavalli in più, che significavano una bella aggiunta a livello di compenso. “Ma un motore così come faccio a montarlo in una stradale?”, ha ribattuto a mio padre, che si è subito stizzito. Ma era un motore con il quale il marchio è andato avanti una vita e anche mio padre avrebbe potuto lavorarci per anni”.

 

E affettivamente non si attaccava alle creazioni, non le voleva possedere?

“Magari avesse voluto. La “Papera” avrebbe avuto un valore inestimabile”. (Sorride divertito).

 

 

Giuseppe Bizzarrini

 

Questa intervista è apparsa anche nel mensile La Manovella

 

© RIPRODUZIONE RISERVATA

 

 

LE FORME DELL’AERODINAMICA

L’analisi, a cura di Giuseppe Bizzarrini, mostra come l’evoluzione dell’aerodinamica nelle auto moderne derivi dai progetti del padre Giotto 


 

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